Vladimiro Giacchè – analisi della crisi
“Soldati pagati con la stessa moneta non si sparano tra di loro”: con questo titolo la Frankfurter Allgemeine Zeitung salutava l’avvio della moneta unica, il 31 dicembre 2001. Il Die Zeit in edicola oggi è diverso: “Il mondo intero vuole i nostri soldi”. Non sono passati neanche dodici anni, ma questi due titoli misurano la distanza tra il sogno dell’integrazione europea e l’incubo che oggi incombe sul continente: quello
di una disgregazione, in cui egoismi nazionali e misconoscimento delle ragioni altrui offuscano una chiara visione degli interessi condivisi. Il secondo titolo, però, ci dice qualcosa di più preoccupante. E cioè che il Paese d’Europa sta cadendo preda di una malattia che già in passato ha deciso – e non per il meglio – le sorti del continente: il vittimismo autocompiaciuto. “Siamo tanto bravi e tutti se ne approfittano”. Purtroppo, contro i deliri di persecuzione gli argomenti contano poco, ma vista la posta in gioco vale la pena di provare lo stesso. E quindi ci permettiamo di consigliare al professor Monti i seguenti argomenti da sottoporre ai suoi cortesi ospiti: la Germania è il paese che più di ogni altro ha guadagnato dall’euro, come dimostra il surplus della sua bilancia commerciale nei confronti degli altri paesi dell’Eurozona. La Germania è anche il Paese che più di ogni altro ha determinato le politiche europee anticrisi, a partire dall’emergere dei problemi di solvibilità della Grecia, nel novembre 2009. Queste politiche sono state caratterizzate prima da indecisione, poi da una ferma determinazione su due punti: il rifiuto di un intervento incondizionato della Bce a difesa dei titoli di Stato greci e l’imposizione alla Grecia di misure di austerity insostenibili, che hanno distrutto il mercato interno e fatto crollare il prodotto interno lordo di oltre il 18 per cento in tre soli anni. Il risultato? Oltre alle sofferenze inflitte alla Grecia, perdite sistemiche enormemente superiori a quelle di un vero salvataggio della Grecia (oltre 800 miliardi di euro contro le poche decine che sarebbero bastate per raddrizzare la situazione nel 2009). Inoltre si è data ai mercati finanziari la certezza che l’appartenenza all’euro non comporta l’impossibilità di un default sovrano, con il conseguente innalzamento del premio al rischio per i titoli di Stato di numerosi altri Paesi europei. In tutti questi casi la terapia imposta in primo luogo dalla Germania, ossia austerity più o meno selvaggia, è stata la stessa sperimentata dalla Grecia. E in tutti i paesi i risultati sono stati gli stessi: una dura recessione. Questo comporta una sempre maggiore divergenza tra le economie di questi Paesi e quelle degli altri membri dell’eurozona, mentre si accentua la rinazionalizzazione dei capitali, e in particolare il rifiuto da parte dei Paesi forti di acquistare titoli di Stato dei Paesi in crisi.
È una storia che, se continua così, può finire in un solo modo: con la fine dell’euro. Il Paese che più degli altri patirebbe di questa disintegrazione è la Germania: secondo Carmel Asset Management, tra perdite della Bundesbank, delle banche private e crollo dell’export (che per il 57 per cento è diretto verso l’eurozona), il costo della fine dell’euro sarebbe per la Germania di 1.310 miliardi di euro. Enormemente superiore a quanto occorrerebbe per salvare l’euro. Per evitare tutto questo occorre invertire le politiche seguite sin qui, con un intervento della Bce a difesa dei titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona, per esempio fissando un tasso massimo per il loro rendimento, valicato il quale la Bce interverrebbe senza limitazioni; questo intervento sarebbe finalizzato alla salvaguardia dell’area valutaria, e quindi possibile anche in base ai trattati attuali. Le manovre di bilancio non dovrebbero essere irragionevoli (quindi il fiscal compact dovrebbe essere cestinato senza rimpianti) e dovrebbero mirare al riequilibrio delle bilance commerciali all’interno dell’eurozona.
Da questo punto di vista sarebbe necessaria anche una reflazione salariale in Germania, per cui ci sono ampi margini.
L’alternativa a tutto questo è la fine dell’area valutaria. Ma un Paese può uscire da un’area valutaria in diversi modi: dopo una lenta agonia economica che può durare anni, attendendo che i capitali stranieri siano tutti rimpatriati e al sicuro. Oppure per una decisione politica che consegua alla constatata impossibilità di proseguire su una strada fallimentare, e che accompagni all’uscita dall’area valutaria anche l’imposizione di severi controlli sui movimenti dei capitali, sia per evitarne il deflusso, sia per evitare che dall’estero si acquistino a sconto imprese di valore. E a questo punto, abbassando un poco la voce, Monti dovrebbe dire ai suoi interlocutori che in caso di necessità l’Italia sceglierebbe con decisione questa seconda strada.
Silvano Andriani – Analisi della crisi
Dalle banche l’attuale crisi emerse nel 2007. Passati cinque anni e con un mare di denaro transitato dai bilanci pubblici e dalle banche centrali al sistema bancario, la crisi è ancora lì. Il buco della JP Morgan, la fuga di capitali dalle banche greche e spagnole, il salvataggio di Stato della quarta banca spagnola ci raccontano storie diverse.
Tutte le storie, però, ci dicono che le politiche adottate non hanno finora eliminato i rischi di una nuova crisi finanziaria. I mercati stanno ormai percependo questo rischio e il fatto che né il recente incontro del G8, né i successivi incontri a livello europeo sembrano in grado, nonostante il mutamento dei rapporti di forza derivante dalla vittoria socialista in Francia, di rimuovere il rifiuto tedesco ad affrontare in modo nuovo il problema del debito.
L’enorme spazio e potere acquisiti dalla finanza negli ultimi trent’anni provengono soprattutto dal fatto che la crescita economica ha avuto per motore l’enorme aumento del livello di indebitamento nei Paesi avanzati. Nel mare di debiti così generato la finanza ha nuotato come un pesce. È invalsa la pratica delle banche di cedere ai mercati i rischi dei propri crediti attraverso la generazione di nuovi prodotti, soprattutto derivati, utilizzabili anche come leva di attività speculative. Ciò ha comportato un mutamento della natura dell’attività creditizia. Fare trading e gestire la tesoreria è diventato per molte banche più importante del seguire giorno per giorno le imprese e le famiglie. In questo processo di «innovazione finanziaria» protagoniste sono state le banche d’affari statunitensi e inglesi che ne hanno tratto grande vantaggio.
La vicenda della JP Morgan ci dice che l’enorme impiego di denaro pubblico con il quale il governo Usa ha salvato le banche non ha cambiato il loro modo di operare. Anzi, il forte afflusso di liquidità che proviene dalla Federal reserve, i bassi tassi di interesse e la convinzione che le banche d’affari debbano continuare a realizzare profitti a due cifre e regalare agli executive bonus favolosi le induce ancora di più a concentrarsi su attività speculative incuranti dei rischi che creano per il sistema.
Questa situazione mette in evidenza il principale limite dell’Amministrazione Obama. Non avere proceduto ad una sostanziale modifica delle regole e del modo di operare della finanza simultaneamente al salvataggio ha mantenuto intatto il potere della lobby bancaria e la sua capacità di vanificare successivamente i tentativi di cambiare le regole. Del resto, il rapporto della finanza con entrambi i partiti Usa è un problema di lunga data. Dall’epoca di Clinton quasi sempre al ministero dell’Economia c’è stato un uomo delle banche. Il peso della lobby bancaria è forse il maggior problema della democrazia Usa.
La situazione delle banche europee è anche peggiore. La loro crisi è stata innescata da quella statunitense, ma non è stata generata da essa: le condizioni della crisi erano maturate tutte dentro i sistemi bancari europei. Il livello di assunzione di rischi rispetto al capitale proprio delle banche europee era nella media non inferiore a quello delle banche Usa con grandi differenze da Paese a Paese: quello delle banche inglesi, tedesche, francesi, spagnole è decisamente superiore, nettamente più basso quello delle banche italiane che perciò non hanno richiesto finora salvataggi pubblici. Il caso europeo mette in luce un altro problema fondamentale: il ruolo delle Banche centrali e della politica monetaria nella generazione della crisi finanziaria ed economica. La crescita del livello di rischiosità delle banche è andato di pari passo con il formarsi di un forte squilibrio finanziario fra i Paesi europei, soprattutto a partire dall’introduzione della moneta unica. Crescita record del debito totale, crescita eccessiva delle posizioni debitorie e creditorie fra Paesi dell’area, crescita eccessiva dei rischi assunti dalle banche, tutto ciò è avvenuto sotto lo sguardo indifferente della Bce.
La concezione della Banca centrale, basata sull’indipendenza della politica monetaria dalla politica fiscale, cara ai tedeschi, smentita dai fatti, continua a guidare la gestione della crisi. Del resto anche dalle nostre parti di recente abbiamo assistito alla commemorazione solenne della dichiarazione di indipendenza della Banca d’Italia dalla politica fiscale. La fedeltà a questo mito ha indotto la Bce a non acquistare direttamente i titoli degli Stati soggetti ad attacchi speculativi e a riempire di denaro le banche inducendole all’acquisto. Il risultato è che si sommano i rischi delle banche e quelli degli Stati, formando una miscela potenzialmente esplosiva. E intanto la Bce si sta riempiendo di titoli rischiosi, il che potrebbe portare all’azzeramento del suo capitale in caso di crisi finanziaria.
Ridefinire il ruolo delle Banche centrali e della politica monetaria e cambiare sostanzialmente le regole e il modo di operare delle banche è un passaggio inevitabile per una risposta strutturale alla crisi. Ma lo è anche per fronteggiare nell’immediato i rischi che la situazione dei sistemi bancari greco e spagnolo possono creare per tutta l’Europa. Sarebbe saggio farlo adesso piuttosto che essere costretti a farlo in modo convulso sotto la pressione di una nuova crisi finanziaria.
Alfonso Gianni – Analisi della crisi
Si aprono settimane davvero decisive per la Grecia, per l’Europa, per il futuro dell’euro. Non solo perché il 17 giugno si rivota nel paese ellenico, ma soprattutto perché la crisi nel frattempo ha continuato a macinare le sue terribili logiche e a provocare i suoi danni. Il tentativo di attribuire quanto potrebbe avvenire nel vecchio continente – e già avviene con il peggioramento della situazione economica e delle previsioni per il futuro – sull’esercizio stesso di un atto elementare di partecipazione popolare quali sono le elezioni politiche, la dice lunga sulla crisi profonda di democrazia accentuata dai processi della crisi economica.
E’ chiaro che tanto le cancellerie europee, quanto i mercati si apprestano a gridare allo scandalo se dalle urne greche dovesse emergere, come è probabile oltre che auspicabile che accada, una più netta e determinante affermazione di Syriza, la formazione della sinistra radicale. Poco importa che questa abbia scelto nettamente la strada della permanenza in Europa e nell’euro. Un capro espiatorio va comunque trovato.
Ma le responsabilità stanno altrove e le formazioni della sinistra europea dovrebbero dirlo con ben altra forza. Dopo ben 24 summit europei la crisi greca non ha trovato soluzione e neppure si è riusciti a invertire la tendenza al peggioramento dell’economia su scala continentale. Il prossimo 25° incontro non fa prevedere esiti migliori. Ma non è colpa del destino cinico e baro. E’ colpa delle politiche fin qui attuate nella Ue. La logica del rigore ha portato a incancrenire la malattia.
Se un intervento meno miope e taccagno fatto per tempo sarebbe costato all’Europa non più di trecento miliardi di euro, ora il default greco può provocare come minimo uno sconquasso da mille euro, secondo autorevoli fonti di calcolo. Senza contare, però, che nessuno è in grado di valutare realmente quanto possono costare gli effetti del cosiddetto contagio, al quale certamente il nostro paese non potrebbe sfuggire. Questa è la ragione per cui Jean Paul Fitoussi torna ad ammonire che le conseguenze di un default greco sarebbero probabilmente più gravi per l’Europa che non per la Grecia stessa.
E’ ormai consapevolezza diffusa tra gli analisti economici di ogni colore che la Grecia non è in grado di pagare il suo debito pubblico, neppure dopo il taglio del 50% dei mesi scorsi. Né tantomeno può rispettare le regole draconiane che le sono state imposte. Se non ci saranno nuovi finanziamenti, lo stato greco sarà nella impossibilità pratica di pagare stipendi e pensioni, visto che nelle sue casse sono rimasti solo 2,5 miliardi di euro. La richiesta di Syriza, ossia di rinegoziare interamente il cosiddetto pacchetto di aiuti a suo tempo concordato con la troika (ossia Fmi, Bce e Ue), appare dunque come la via assolutamente più realistica. Se questo non avviene, il default incontrollato è certo e con esso l’uscita della Grecia dall’Euro.
Tecnicamente la cosa non sarebbe di per sé necessaria. Ovvero è possibile che un paese sia insolvente e che continui a stare in un sistema di moneta unica. E’ il caso del Minnesota e della California, la cui insolvenza non comporta la fuoriuscita dal dollaro. Ma gli Usa sono uno stato federale e la loro banca centrale svolge un ruolo di garante e di prestatore in ultima istanza. Cosa che in Europa non avviene. La contraddizione è clamorosa: il sistema europeo non prevede alcuna possibilità di uscita concordata dall’euro, che quindi può avvenire solo per via traumatica; la scelta della moneta unica è irreversibile; ma allo stesso tempo non vi è alcuna rete di salvataggio preventivamente disposta per evitare il default di uno stato, essendo il fondo di recente costituzione del tutto insufficiente e inadatto. Solo il cambiamento radicale della missione della Bce potrebbe servire a tale scopo e in prospettiva ancora più la trasformazione della Ue in un’entità federale a tutti gli effetti. Tempi lunghi in entrambi i casi.
Intanto siamo sull’orlo del baratro. Il ritorno alla dracma non sarebbe indolore. Già la sostituzione fisica della moneta non è un problema da poco. La svalutazione sarebbe assai forte e in assenza di una possibilità di esportare – visto che al di là del turismo l’attuale economia greca offre poco – non porterebbe i desiderati vantaggi. L’accessibilità al credito internazionale sarebbe preclusa per lungo periodo. La Grecia riottenerebbe sì la sovranità monetaria, ma al prezzo di un rilancio dell’inflazione. Eppure, al limite, con una sapiente azione di governo, le conseguenze di quest’ultima potrebbero essere persino più contenute del programma di lacrime e sangue imposto dalla troika. Sarebbe l’Europa in realtà ad avere la peggio da un default della Grecia. La moneta unica perderebbe di credibilità, alimentando tutte le possibili manovre speculative. I primi ad esserne colpiti sarebbero i paesi del Mediterraneo, come Portogallo, Spagna e naturalmente Italia.
A questo punto l’euro non potrebbe reggere e con esso neppure quell’Europa che fin qui abbiamo conosciuto. Le ipotesi alla Beppe Grillo di due monete, una forte, cioè il Marco, e un’altra debole destinata ai paesi del Sud, non reggerebbe di fronte all’inevitabile prevalere della logica dell’ognuno per sé. Già ora la Germania pratica tassi di interesse negativi. Infatti i Bund hanno rendimento nominale pari allo zero, ovvero meno che zero nella realtà, visto che almeno due punti di inflazione ci sono. Malgrado questo, sta attirando capitali nel proprio territorio, accogliendo quelli che fuggono dalle banche dei paesi più deboli terrorizzati da possibili svalutazioni. Sono questi ultimi a finanziare la Germania e non viceversa.
Al contrario una politica di ricerca dell’unità con i paesi mediterranei e con l’Irlanda andrebbe praticata e giocata per modificare radicalmente la politica dominante nella Ue. Per questo è importante il referendum di fine mese che in Irlanda si terrà sullo sciagurato fiscal compact, ovvero l’imposizione di una riduzione forzata del debito dei singoli paesi; che Hollande nel suo difficile tentativo di scalfire la rigidità tedesca non sia lasciato solo e che da noi forze come Sel si siano pronunciate apertamente per la non ratifica del medesimo da parte dei parlamenti nazionali. Le elezioni tedesche, previste nell’autunno del 2013, sono troppo lontane. L’Europa potrebbe crollare prima. Per questo la sconfitta della Merkel e della sua politica va costruita da subito. La differenza fra destra e sinistra sta qui. A nessuno è concesso stare in mezzo.